Intervista a Gennaro Esposito: “Proveremo a riportare la terza stella in Campania”




Buongiorno Gennaro, da quanti anni fai questo mestiere?

Sono più di trenta. Ho iniziato da ragazzino con mio zio pasticciere; mi affascinavano le sue mani che in pochi gesti creavano dei dolci così saporiti e apprezzati da tutti.
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Perché hai scelto questo percorso?

All’epoca sceglievano tutti ragioneria per puntare a un posto fisso, ma non mi sono mai piaciute le strade facili, volevo e voglio mettermi costantemente alla prova con le sfide più ardite. Il cuoco in quegli anni era un lavoro poco stimato, ma era esattamente quello che cercavo, una vita non facile, per dimostrare il mio valore senza alcun tipo di scorciatoia.
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Il primo ristorante dove hai lavorato?

Si chiama Mustafà, a pochi metri da qui, dove ho iniziato preparando i crocchè di patate. Sono rimasto quattro anni in cui ho imparato tanto, fino ad arrivare al ruolo di sous chef. In seguito mi sono lanciato in tante importanti esperienze, fino ad aprire il mio ristorante all’età di ventuno anni.
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Che cucina proponevi all’inizio del tuo percorso da chef?

Ho iniziato con i piatti tradizionali della cucina partenopea, come gli spaghetti alle vongole o il pesce all’acqua pazza, finchè non ho creato la parmigiana di pesce bandiera, che ha cambiato le carte in tavola.
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Cosa aveva di tanto rivoluzionario la tua parmigiana di pesce bandiera?

E’ stato un piatto che hanno ripreso tanti miei colleghi chef e che si poteva replicare anche a casa. Fino ad allora il pesce bandiera veniva buttato, avendo pochissimo mercato. L’idea di dare dignità a un prodotto così bistrattato mi affascinava e ho voluto inserirlo in un classico come la parmigiana di melanzane, sostituendo proprio queste ultime.
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Dopo Alfonso Iaccarino sei stato tu a rinnovare ulteriormente la cucina campana, in cosa consiste la novità di Gennaro Esposito?

Alfonso Iaccarino è un esempio per tutti noi, sia dal punto di vista della cucina, che da quello imprenditoriale, essendo stato l’unico in Campania a prendere tre stelle Michelin. Non saprei dirti esattamente qual’è stato il mio contributo alla cucina della nostra regione, ma banalmente potrei dirti che ho focalizzato l’attenzione su nuove tecniche di cottura, su prodotti autentici e di primissimo livello, su sapori sempre più inconsueti, innovativi, concentrati.

Tre aggettivi per il tuo stile di cucina?

Sofisticato, comprensibile, persistente nella memoria.
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Che significato ha il ruolo dello chef al giorno d’oggi?

Quando ho cominciato io lo chef era considerato un perdente e mia madre mi sconsigliò vivamente di farlo. Oggi invece è diventato un mestiere di grande competenza, perchè devi garantire ospitalità, confort, guidare una squadra, a prescindere, ovviamente, dal dover rendere felici i clienti con i tuoi piatti. E’ un lavoro che non ammette maschere o finzioni, perchè i clienti se ne accorgono e perdi tutta la loro stima.
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Pensi che i tempi siano maturi per una terza stella Michelin in Campania? Ti senti fra i papabili?

Non spetta a me dirlo, ma certamente negli ultimi anni abbiamo fatto un grande lavoro di affinamento, a partire da una riduzione dei coperti, passando per il perfezionamento dei piatti al fine di renderli sempre più internazionali e finendo per offrire un’accoglienza ricca e ricamata sulle necessità di ogni singolo ospite. Credo che i tempi siano maturi per ambire a questo grande traguardo e ti confesso che è il nostro obiettivo primario da raggiungere nel giro dei prossimi due anni.
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Ci racconti alcuni piatti dell’ultimo menù?

Sto iniziando a sperimentare i piatti vegetariani, che a mio avviso possono essere interessanti e saporiti come gli altri. Ad esempio ne abbiamo uno con finocchi, crema di mandorle e salsa di avocado, oppure un altro apparentemente più semplice con spuma di ceci, crumble al finocchietto e broccoli. In entrambi i casi ricerchiamo complessità e sfumature grazie alla tecnica e all’autenticità dei prodotti. Un altro piatto che mi intriga parecchio sono i cannelloncini ripieni di ragù napoletano, dove riduciamo in miniatura un classico della tradizione, per alleggerire una degustazione di sette, otto portate che altrimenti risulterebbero troppo pesanti.
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